SPUNTI PER UN RIFORMA
DEL SISTEMA ORGANIZZATIVO E DEL METODO DI GOVERNANCE DEL PARTITO DEMOCRATICO
Dopo la mancata vittoria elettorale il Partito Democratico è
chiamato a ragionare su un duplice orizzonte temporale. Da un lato l'urgenza di una soluzione politica che
consenta di governare. Dall’altro la necessità di ridefinire la propria struttura e
il modello di governace.
All'interno del partito è in corso un dibattito,
anche aspro, sulla riforma della proprie strutture. Confronto importante anche perché il PD sin dalla nascita è stato portatore di importanti innovazioni riguardanti la forma partito. Novità che hanno contribuito ad influenzare l’intero quadro
politico, a partire dalla definizione di un sistema maggioritario (scompaginato
dall’ultimo risultato elettorale) e dall’introduzione delle primarie aperte
per la contendibilità della leadership (sia quelle di partito sia quelle
relative alla premiership).
Prendendo in considerazione l’ultimo periodo, i principali sostenitori
di proposte innovative relative alla forma-partito sono indubbiamente Matteo
Renzi e Giuseppe Civati, le cui differenti visioni sono state plasticamente
rappresentate nel corso dell’ultima direzione nazionale. Assemblea che Renzi ha
polemicamente abbandonato, con la chiara intenzione di smascherare l’ipocrisia
e l’inutilità dell’attuale forma di governance. Un atteggiamento legittimo e
coerente con la campagna delle primarie, in cui Renzi ha giocato tutte le sue
carte sulla ricerca del consenso al di fuori della dirigenza e del partito, per
rivolgersi direttamente ad un bacino ampio di simpatizzanti. Se è vero che
questa partita è risultata al momento perdente sul piano interno, non
altrettanto si può dire sul piano elettorale, e non solo perché non se ne ha la
riprova. L’ipotesi di un partito di impronta americana, per molti versi simile
ad un comitato elettorale che ruota intorno a personalità capaci di allargare
il perimetro del consenso oltre il tradizionale bacino elettorale, esce infatti
rafforzata dalla sconfitta del PD, che dimostra l’insofferenza italiana verso
un governo di sinistra-centro. La
proposta di Renzi in merito all’abolizione del finanziamento pubblico dei
partiti costituisce il corollario logico di questa visione, perché solo un partito
“leggero” è in grado di affrontare una simile riduzione della spesa e allo
stesso tempo di attrarre finanziamenti privati. Si tratta di un partito con
minore forza pervasiva, ma anche capace di alleggerire la “pressione” e
l’occupazione della società ontologicamente esercitata da partiti più
strutturati.
La posizione di Civati, che ha messo al centro del proprio
intervento in direzione la necessità di ammodernare il partito e il suo
linguaggio politico, si muove in un’ottica “riformista” laddove Renzi ha scelto
un approccio “massimalista”. Da tempo Civati ha avanzato proposte di
rinnovamento, prima scommettendo su una nuova stagione di civismo e di
allargamento della partecipazione della società civile nel dibattito e nella
vita del PD, ad esempio con l’invenzione del format di Prossima Italia (che
segnò il culmine ma anche la fine di un progetto condiviso con Renzi).
Avvertendo il pericolo della ripiegamento del PD su sé stesso, Civati è stato
fautore di una costante apertura del PD sia verso la società civile sia verso
gli altri partiti che si collocavano nel campo del centro-sinistra, sostenendo
le cosiddette alleanze “arancioni” e tentando anche il dialogo con il movimento
a cinque stelle. In seguito il tentativo riformista si è concentrato sulla restituzione
del potere di scelta e di decisione ai tesserati e ai simpatizzanti. La
proposta di utilizzare i referendum consultivi interni- le cosiddette doparie-
su temi cruciali del partito –diritti, ambiente, spese militari, ecc – ne
costituisce un esempio lampante. Anche la principale vittoria politica del
gruppo civatiano va in questa direzione, avendo per primo teorizzato e
fortemente caldeggiato l’introduzione delle primarie per i parlamentari, in
attesa di una riforma elettorale che restituisca agli elettori il potere di
scelta dei propri rappresentanti.
All’interno di questo quadro, la “strana dualità” del PD tra
il ruolo di segretario e di candidato premier potrebbe costituire una risorsa, piuttosto che un problema. Il partito potrebbe
strutturarsi secondo un modello civatiano (che comprende una riduzione e una
trasparenza assoluta delle spese),
accettando tuttavia il modello dei “comitati elettorali” di stampo
renziano per la contendibilità del ruolo di candidato alla presidenza. Perché
se da un lato risulta evidente che in questa fase il centro-sinistra italiano
(ma anche europeo) ha bisogno di centri di elaborazione per progettare il
proprio futuro, quali solo un partito organizzato può garantire, altrettanto vero
è che la conquista della maggioranza passa necessariamente attraverso
l’ampliamento del proprio bacino elettorale e la selezione di un candidato
dotato di capacità di forti capacità di leadership. La duplicazione dei ruoli e
delle funzioni, corredata da una norma
sull’incandidabilità al ruolo di premier per il segretario di partito, consentirebbe
di rafforzare la capacità di elaborazione politica del PD e allo stesso tempo
di superare la ricorrenti difficoltà nell’affrontare la campagna elettorale.
La definizione di questo scenario non esclude, ma anzi
implica, la necessità di una riforma della governace di partito. Questa riforma
complessa dovrebbe incardinarsi, a mio parere, su due punti:
- La ridefinizione del ruolo di segretario e,
conseguentemente, dei compiti delle assemblee
- La ridefinzione delle procedure del metodo di
discussione e decisione.
- Per quanto riguarda il primo punto, il ruolo del
segretario dovrebbe essere riformato prendendo quale punto di partenza
l’esperienza del partito “liquido” veltroniano. La “restaurazione” del partito
tradizionale imposta da Bersani ha infatti dimostrato, a più riprese, le sue
lacune, sia nell’incapacità di dialogo e attrattività verso la società civile,
sia nella selezione della classe dirigente. Il PD ha la necessità di trovare un nuovo modello di confronto sia al
proprio interno sia con l’esterno, in primo luogo trovando un “coordinatore”
capace di costituire e rafforzare le reti, di ottimizzare i flussi di
comunicazione e di ridefinire in senso orizzontale i processi decisionali.
Parlare di coordinatore invece che di segretario significa anche identificare
con maggiore precisione la figura “professionale” di cui si ha necessità e i
relativi skill. Il coordinatore deve essere un primus inter pares, un facilitatore
del discorso, capace di individuare i temi strategici di discussione, di
definire i tempi, le priorità e modalità di tale confronto. Al coordinatore non spetterebbe invece, a
differenza di adesso, il compito di sintesi finale e di decisione delle diverse
proposte, poteri che dovrebbero essere trasferiti alle assemblee e agli organi
dirigenti competenti. Questo cambiamento delle funzioni dovrebbe
necessariamente essere trasferito a tutti i livelli intermedi del partito, dai
segretari regionali a quelli di circolo. Il fallimento della formula
“veltroniana” rende necessari due corollari a tale trasformazione delle
funzioni: il mantenimento della dualità (di cui sopra) e la distinzione tra
voto di fiducia e voto sui singoli provvedimenti. Il mantenimento della dualità mette intatti
al riparo il coordinatore dall’accusa, che fu ricorrente, di mancanza di
“carisma” e “personalità” in quanto tali funzioni di leadership sarebbero
incarnate dal candidato premier.
- La distinzione tra fiducia e voto sui singoli
provvedimenti è la premessa della
ridefinizione dei metodi di discussione e decisione. Il coordinatore in quanto
organizzatore della “contesa” non sarebbe messo infatti in discussione
dall’esito delle votazioni relative agli indirizzi strategici del partito.
Nell’ambito delle discussioni, alle quali potrebbe ovviamente partecipare, il
suo peso politico dovrebbe essere esattamente equivalente a quello degli altri
membri dell’organo collegiale investito della decisione. La fiducia nei suoi
confronti dovrebbe essere espressa solo in relazione alla sua capacità di
coordinamento e non sulla sua linea politica, la quale sarebbe decisa di volta
in volta dagli organi assembleari. Tale soluzione dovrebbe allo stesso tempo
liberare la discussione da quell’ipocrisia di fondo e dalla stagnazione conseguente
all’organizzazione per correnti. Nell’ambito delle discussioni infatti l’unica
posta in palio sarebbe quella sull’argomento in oggetto, poiché il coordinatore
non avrebbe il problema di trovarsi in minoranza e la sfiducia potrebbe
realizzarsi solo tramite una specifica richiesta di voto su questo argomento. A
loro volta i rappresentanti degli organi dirigenti dovrebbero sentirsi
“liberati” da questa modalità di decisione. Il tema della “fedeltà” e
dell’appartenenza ad una corrente dovrebbe essere svuotato di significato, dato
che le maggioranze e minoranze potrebbero essere variabili e trasversali, a
secondo dei temi, senza che ciò leda l’immagine del partito. Le votazioni
dovrebbero essere l’obiettivo di ogni riunione assembleare e la discussione lo
strumento attraverso il quale sviluppare una “battaglia di idee” e attraverso
il quale far emergere gli oratori più brillanti e più innovatori, secondo un
antichissimo quanto insuperato schema dialettico.
La riforma del metodo
richiede infine al coordinatore un’altra capacità, che potremmo definire come
tempismo. Tempismo inteso come capacità di comprendere rapidamente quali sono i
temi da portare in discussione e in quali sedi. In questo senso il coordinatore
potrà “trattenere” a sé una parte rilevante di argomenti ( quelli che
richiedono risposte immediate o quelli sui quali sono già state assunte delle
decisioni), ma potrà anche decidere quali temi richiedono solo la votazione
della direzione nazionale, quali quella delle assemblee e quelli per i quali
sia necessaria una consultazione popolare, ricorrendo al sistema delle doparie.
Una selezione di priorità in cui però venga posto l’accento sull’ampliamento
della platea dei votanti, per rispondere alla necessità di partecipazione e
protagonismo degli attivisti e dei simpatizzanti del partito.