31/12/10

Il lato nacosto della frittata.

La
frittata è fatta, ma sarebbe l’ora di rivoltarla. Perché se è vero che gli accordi di Mirafiori e Pomigliano sembrano ormai definitivi, non si capisce proprio quest’addossare al PD e alla sinistra il fardello della questione. Insomma, dando ascolto ai media e seguendo il flusso delle dichiarazioni sembrerebbe quasi che al governo ci fosse Bersani, al ministro dell’economia Vendola, alle relazioni industriali Ichino e al welfare Di Pietro. E invece no, al governo ci sono il PDL e la Lega la responsabilità di quanto sta accadendo all’interno del sistema delle relazioni industriali italiane in questi giorni se lo devono assumere loro. Quindi invece che andare a cercare le spaccature nella sinistra-che pure ci sono- bisognerebbe chiedere ai Bossi e ai Maroni che cosa ne pensano loro di questo accordo, loro che si vantano di avere ormai conquistato l’elettorato operaio del Nord Italia. I paladini dell’italianità contro le cineserie, i fieri avversari della globalizzazione, che cosa hanno fatto per impedire l’affermarsi di modelli industriali da paesi in via di sviluppo, che limitano i diritti e che incrementano i carichi di lavoro? Non li preoccupa neppure un po’ vedere i nostri operai trasformati in tanti lavoratori cinesi e messi in una concorrenza  senza rete con gli indiani o i coreani? E se non gli interessa, come appare dal loro compiaciuto silenzio di questi giorni, come possono dire di rappresentare in qualche modo gli operai e i loro diritti? 
Non tanto meglio se la passano nel PDL, i cui ministri- Sacconi e Romani in testa- applaudono convinti le proposte di Marchionne. Dato che  così stanno le cose, sarebbe l’ora di fargli notare che non solo è tramontata la farsa del presidente “operaio”, ma che l’intera struttura “popolare” del PDL deve essere abbandonata. Essere semplicemente felici di quanto sta accadendo alla Fiat rivela infatti la verità di un partito classista, che è indifferente ai destini degli operai, che è pienamente d’accordo sul loro sfruttamento e che non ritiene sia necessario muovere un dito per migliorare le condizioni di vita e lavoro di chi si colloca in una fascia bassa di reddito. Il PDL si mostra così come il partito classista degli imprenditori, dimostrando una visione antiquata dell’impresa, volto a riconoscere solo i diritti dei datori di lavoro e non dei lavoratori.
E se qualcuno rispondesse che altro non si poteva fare, che gli accordi andavano accettati e che per preservare i posti di lavoro non c’era altra scelta? A questi, che sono molti, bisognerebbe dire che mostrano una visione succube della politica all’economia, quella visione che ci ha portati dentro la crisi economica e che ha fatto dei banchieri nazionali e internazionali i veri detentori del potere. E, così ad occhio, ho come l’impressione che molti elettori della Lega  e del PDL non sarebbero proprio contenti di sapere che il loro destino è stato consegnato, senza domandare il loro parere, nelle mani di una presunta elitè di funzionari.
Tuttavia la verità è ancora un’altra: che molto il governo poteva e doveva fare in questa fase epocale di trasformazione del mondo del lavoro e delle relazioni d’impresa e nulla ha fatto. Tanto per essere concreti, il governo poteva farsi promotore di piano di sviluppo della Fiat che, attraverso sostegni economici ed agevolazioni fiscali, permettesse un miglioramento della produttività e della qualità delle produzioni. In sintesi, il governo aveva il dovere di spingere la Fiat a competere con gli altri giganti dell’automobile non sul piano del risparmio del costo del lavoro ma sulla qualità e l’innovazione dei propri mezzi. Auto migliori, magari innovative da un punto di vista dei carburanti, ad alto valore aggiunto tecnologico, con operai tanto qualificati e specializzati da diventare insostituibili. Un piano di sviluppo tarato insomma sulle strategie competitive delineate dall’Unione Europea, che ritiene necessario trasformare il vecchio Continente in una “economia della conoscenza”, per evitare di entrare in competizione diretta con quelle economie emergenti che possono disporre di forza lavoro a bassissimo costo. Il governo di Berlusconi poteva proporre a Marchionne un simile piano, facendo leva sui fondi per la riqualificazione del personale e sullo sviluppo produttivo che provengono da Bruxelles, ma ha ritenuto non fosse necessario farlo. Perché non aveva alcun vero interesse ad aiutare gli operai Fiat, ai quali non ha riservato un decimo delle attenzioni riservate ad Alitalia, per la quale invece aveva bel altri “interessi” e per la quale ha violato una quantità imprecisata di regole comunitarie.
Ma mettere in campo una simile strategia di medio e lungo periodo avrebbe anche comportato la messa in discussione della linea economica di Tremonti, questa presunto liberismo ammantato di paternalismo compassionevole. Insomma la ricetta del ministro del Tesoro per gestire la crisi economica è solo quella dei tagli lineari alla spesa: un sistema semplice e allo stesso tempo di breve respiro, perché non offre alcuna direzione di sviluppo e nessun incentivo per la ripresa complessiva della competitività italiana. Intervenire in prima persona negli accordi di Pomigliano e Mirafiori avrebbe significato per il governo anche impegnarsi economicamente, assieme all’UE, per delineare un progetto di sviluppo innovativo in un comparto industriale molto importante per il nostro paese. Ma Tremonti non ha voluto derogare al suo schema, pensando che era più comodo e più sicuro fare pagare agli operai il peso della crisi e della ristrutturazione. E comportandosi così in modo assai diverso non solo da paesi notoriamente comunisti come la Germania e la Francia – che hanno speso per riqualificare e sostenere l’innovazione e la ricerca- ma anche dal pericolo socialista Obama, che negli Stati Uniti ha ampiamente aiutato con fondi pubblici l’industria dell’auto.
 In conclusione la vicenda Fiat  è il segnale inequivocabile della crisi politica del governo Berlusconi:
un governo che si autoproclama “del fare” e che in una simile, cruciale, vicenda non fa nulla, compresa la mancata riforma del sistema della rappresentanza sindacale,
un governo che si proclama “popolare” e “patriottico” e che saluta con un classico “me ne frego” i problemi nuovi dei lavoratori italiani, dimostrando una parzialità di giudizio che lo appiattisce sull’ala più autoritaria e “sfruttatrice” dell’imprenditoria italiana.
Altro che crisi della sinistra, quindi!

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